Corso Vittorio Emanuele II si conferma l’epicentro dell’antica Cagliari il cui nome è da confrontare con i toponimi antichi Kàralis o Kàrallis della Panfilia o Karalléia della Pisidia in Asia Minore.
DUEMILA ANNI fa, questa importante arteria stradale poi battezzata il Corso, divenne parte integrante del nucleo urbano, densamente abitato, che precedette la nascita della città attuale: la nostra Cagliari, cresciuta sui resti di antichi edifici, soprattutto del periodo romano. Se in piazza Carmine c’era parte integrante del foro, ed un antichissimo tempio-teatro ormai distrutto, piazza Jenne nasconde ancora parecchie cisterne scavate nella roccia per la raccolta dell’acqua.
LA NUOVA SCOPERTA un mese fa. Quanti entrano nel Corso dalla confluenza con il Largo Carlo Felice cedono alla tentazione di sbirciare tra le reti protettive del cantiere che, in mezzo alla strada, ha aperto una grande trincea.
Al suo interno vediamo riemergere un’antichissima struttura, circondata da moderne condotte per l’acqua e tubi colorati.
Sempre in quella fossa che ospiterà i sottoservizi, l’ingresso di un tunnel sotterraneo: è “Su condottu”, vetusta fognatura e forse un riuso dell’antico acquedotto romano.
Quel passaggio che si addentra fin sotto la via Azuni e le sue acque scendono dalla rupe del Castello, sorge di accanto all’imponente truttura ritrovata.
Quest’ultima è stata realizzata da mani sapienti con grandi pietre calcaree, perlopiù blocchi rocciosi, squadrati e ben levigati.
IPOTESI. Si fantastica che ad estrarli furono gli schiavi: uomini forti che aprirono le cave a cielo aperto o sotterranee, per posizionare quei massi rettangolari in modo armonico e perfetto, nel luogo dove oggi li abbiamo riavvistati.
Secondo indiscrezioni si tratterebbe di un santuario. Gli esperti ipotizzano “un tempietto sacro”, altri parlano di una nuova Domus. Per adesso, chi di competenza non si esprime. O forse preferisce la linea del silenzio. Ma c’è stato chi, tra gli archeologi di vecchia data, interpellato dalle associazioni culturali cittadine, ha espresso perplessità sia per la possibile ricopertura del sito, soprattutto per il continuo passaggio di ruspe e mezzi pesanti.
Il viavai procede accanto alle delicate strutture archeologiche in nome della fretta, della celerità di riconsegnare alla città il Corso con il vestito nuovo.
E allora non val la pena accedere alla struttura interna di quella specie di stanza d’antica memoria?
Magari sarebbe auspicabile, in nome della cultura del sapere e del non ricoprire, indagarne la stratigrafia con strumenti ad hoc. Indagini non invasive, per meglio capire cosa l’incuria del tempo, e dell’uomo, hanno nascosto in questo angolo di città.
L’archeologia preventiva, del resto, potrebbe far la sua parte. Volendo.
Dal quotidiano Casteddu OnLine.