La Dea Madre delle caverne: scoperta eccezionale a Seulo

 

Le grotte della Sardegna continuano a stupire e ci restituiscono la testa (per adesso solo quella) di una Dea Madre vecchia di millenni. Andrea Piras ha firmato per il quotidiano L’unione Sarda un interessante resoconto di una bella scoperta che si preannuncia ricca di novità. Pubblichiamo l’articolo integrale. Buona lettura (segue…).

 

Le grotte della Sardegna continuano a stupire e ci restituiscono la testa (per adesso solo quella) di una Dea Madre vecchia di millenni. Andrea Piras ha firmato per il quotidiano L’unione Sarda un interessante resoconto di una bella scoperta che si preannuncia ricca di novità. La Dea Madre è la divinità adorata dagli antichi nuragici ma non solo. Qui in Sardegna, questa particolare divinità, veniva rappresentaata in modo differente dalle altre popolazioni della lontana preistoria. La statuaria piccola, cioè le piccole raffigurazioni, venivano eseguite in modo artistico dagli uomini antichi che abitavaano le caverne: terracotta o pietra, le statue della Dea Madre presentavano a volte i seni prosperosi e la pancia “in modo gravido”, oppure longilinee, con linee ricercate in modo accuraato.  In questa sessione pubblichiamo l’articolo integrale tratto da L’Unione Sarda del 28 Novembre 2010. Buona lettura.

 

 

Il prezioso reperto rinvenuto da un’équipe di studiosi guidati dal professor Robin Skeates

La piccola testa di Dea Madre riemerge dal cuore della terra

 

Eccezionale scoperta archeologica in una della camere della grotta di Is Janas  

 

di Andrea Piras *

 

 

 « My Good, oh my Good ». Ha invocato Dio, Robin SKeates, quando sul palmo della sua mano è finito quel piccolo reperto antico ancora sporco di fuliggine. Lo studioso inglese non credeva ai suoi occhi. Era vero, non un sogno. Non più una di quelle speranza che ogni archeologo porta con sé ad ogni scavo. La testa tonda e stilizzata della “dea madre” era spuntata dalla terra, dall’ultimo strato di terra prima che le palette e i pennelli toccassero la roccia, laggiù nel cuore della terra, dentro Is Janas, dentro la grotta di Seulo dove i ricercatori della storia più antica stanno da qualche anno conducendo un’importante campagna di indagine per riportare alla luce le testimonianze del Neolitico sardo.

 

Il miracolo è avvenuto una calda mattina dello scorso agosto (la scoperta è stata diffusa soltanto ora per motivi di sicurezza e per completare le indagini), quando Robin Skeates, professore del Dipartimento di Archeologia dell’Università di Durham, la geologa cagliaritana Giusi Gradoli, il professor Terence Meaden, archeologo esperto di paesaggi dell’Università di Oxford, l’archeologa cecoslovacca Agni Pignatjli e l’archeologa sassarese Irene Sanna stavano completando le indagini sull’ultima stratificazione del terreno da dove, pochi attimi prima, erano saltati fuori altri frammenti di ceramica e una bellissima punta di freccia in ossidiana.

«Un intervento – precisa Gradoli – all’interno del cunicolo laterale della camera inferiore di Is Janas. Noi eravamo già fuori con i secchi carichi di terra da setacciare, Irene era ancora all’interno. Abbiamo sentito le sue urla, urla di gioia che evidentemente non avevamo decifrato immediatamente. Aveva in mano un piccolo oggetto nero tondeggiante e ancora sporco, ma facilmente identificabile». Nessun dubbio. Nessuna incertezza. Quel piccolo frammento di pietra era la testa di una figurina votiva, un “idolo femminile” o dea madre per dirla con l’Accademico dei Lincei, il professor Giovanni Lilliu.

Gli archeologi, che inevitabilmente Lilliu avevano letto e studiato a fondo, ci hanno messo poco per rammentare le scoperte del Professore. Le interpretazioni su quelle minuscole statuine ritrovate in Sardegna. Davanti ai loro occhi, in un attimo, le immagini delle idoli custoditi nel museo archeologico di Cagliari e di Sassari. Robin Skeates l’ha accolta nelle sue mani delicatamente, come fosse sin troppo fragile, la testa appena strappata alla terra. «Mio Dio, non può essere vero». Ruth Withehouse, professor emerito di Preistoria europea dell’Università di Londra era appena andata via da Seulo dopo aver visitato Is Janas, Longu Fresu, Is Bittuleris, Cannisoni, le grotte della Barbagia di Seulo che ora stanno facendo il giro del mondo dopo le scoperte (le pitture rupestri ma anche e soprattutto le testimonianze della presenza umana al loro interno con depositi di ossa ma anche di ossi animali, ceramiche lavorate e altri magnifici manufatti) fatte in questi anni durante le quattro campagne di scavo.

 

«In una delle camere di questo sistema complesso di grotte – spiega il professor Skeates – abbiano scavato un deposito archeologico stratificato. In prossimità della fine dell’indagine, quando ormai eravamo arrivati alla roccia, Sanna ha trovato la testa della figurina di pietra. Il deposito circostante comprende suoli bruciati con cenere grigio-scura e presenza di ossi di animali, pezzi di ceramica e ossidiana, inclusa una punta di freccia. Una campione delle ossa recuperato accanto alla testina, è stato già spedito ai laboratori di Oxford per essere datato con il Carbonio radioattivo e i risultati potranno darci preziose informazioni anche sul reperto».

Per l’archeologo inglese «il deposito interno di Is Janas può essersi accumulato come risultato di rituali che comprendevano una deposizione sacrificale, compresa la bruciatura di doni agli spiriti della grotta o dell’oltretomba, inclusa la figurina che potrebbe essere stata usata come intermediaria nell’azione rituale tra la gente viva e la loro divinità». Una teoria che sembra trovare conferma negli studi fatti nei Balcani e in Turchia dal professor Dougles Bailey.

 

La testa, di calcare o calcite, resa nera dalla fuliggine, è stata ora ripulita. Misura cinque centimetri di lunghezza per uno spessore che va dallo 0,5 al centimetro. «Da un punto di vista stilistico può essere attribuita al Neolitico finale e in maniera più specifica alla cultura di Ozieri, datata tra i quattromila e i tremila e 200 anni prima di Cristo», precisa Robin Skeates. «La testa di Is Janas è un reperto molto raro, soprattutto se riferito al contesto in cui è stat trovato. Altre figure sono state scoperte nelle domus de janas e in particolare nell’ipogeo di Porto Ferro, nella necropoli ipogeica di Serra Crabile di Sennori, ma questa è la prima volta che un oggetto simile viene rinvenuto in una grotta durante una vera campagna di scavo».

Scoperta dunque eccezionale che metterà il centro della Sardegna e nello specifico Seulo nell’elenco delle zone di grande interesse archeologico della Sardegna.
Resta da svelare, se mai sarà possibile, il mistero della testa di Is Janas.

 

Che tipo di esperienza traevano quelle persone da quell’ipotetico rito consumato con la figurina votiva all’interno della grotta? Chi l’ha davvero usata, quella statuina? Chi poteva vederla, chi la controllava? Sono domande a cui Robin Skeates vorrebbe riuscire a rispondere.

Una cosa è certa. «Questo tipo di oggetti – sostiene il professore del Dipartimento di Archeologia di Durham – è ricercatissimo dai tombaroli e dai collezionisti privati, ma fortunatamente siano riusciti a recuperarlo e il pubblico potrà avere l’esperienza di ammirare la sua bellezza quando verrà esposto in uno dei musei della Sardegna». Magari insieme ad altri possibili “tesori” archeologici che potrebbero emergere in occasione delle future campagne di scavo negli anfratti della Barbagia di Seulo e più specificatamente nella grotta di Is Janas. Un intervento finanziato dalla British Academy dell’Università inglese di Durham e dalla Fondazione Banco di Sardegna. «Contiamo di continuare le ricerche nell’estate del 2011 – assicura Skeates – concentrando l’attenzione sui ricchi depositi neolitici conservati nelle camere di Is Janas».

 

 Andrea Piras 

* pubblicato su L’Unione Sarda di domenica 28 Novembre 2010. 

 

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APPROFONDIMENTO SULLE GROTTE DI SEULO:

 

Pubblichiamo un articolo del 2 Gennaio 2006 (La Nuova Sardegna).

 «La scoperta di quei vecchi graffiti sarà l’inizio di un piccolo piano di rinascita per le zone interne»

 

Seulo. Più che al 2006 hanno brindato con vino bianco doc di Seulo “a su babbu mannu”, al loro antenato, convinti di un primato che li porta all’improvviso in vetta alla classifica, perché – è la voce del popolo – «su sardu prus antigu est nasciu in Seulu». Qui, in questo costone innevato della Sardegna dove la prudenza è sempre stata regola di vita, adesso hanno sciolto le briglie e non aspettano, né i referti del sequenziatore del Dna né le prove chimiche dei geologi, degli antropologi o dei massimi esperti dell’arte rupestre al mondo, ma neanche le sentenze dei ris dei carabinieri 007 della preistoria. Sono bastate alcune pagine di giornale dopo due missioni internazionali di paleografi e quantaltro, e Seulo – il paese-capoluogo della prima Barbagia (le altre sono quelle di Belvì e di Ollolai) – si sente rinato a nuova vita perché «che bello!, siamo il paese del primo abitatore della Sardegna».

È come se ne avessero già certificato giorno e luogo di nascita in un’ideale carta di identità del primo “seulese”. Orgoglio ma anche un po’ di giudizio, da sana umiltà: «Se ne sono accorti gli stranieri, greci, spagnoli e australiani, e una dottoressa di Cagliari: loro hanno visto le cose di casa nostra a noi ignorate. Ma loro hanno studiato. Bravi. Siamo orgogliosi, gli studi sono forestieri ma il territorio è nostro». E che orgoglio: «Cristo è nato in una grotta di Betlemme, il primo sardo è nato in una grotta sotto monte Perdedu».

Voci di paese, anzi, voci di bar. Il bar è quello dei Boi-Murgia, anzi “il bar di Armando” chiamato affettuosamente “Concheddu”, nello stradone centrale del paese bianco di neve e sotto una cappa grigia invernale mentre in ogni casa – tra i riti del maiale ammazzato, le cosce pronte per farne prosciutti, gli arrosti e il sanguinaccio imbudellato con noci e zucchero – ci si prepara al veglione di San Silvestro. È un bar come tanti altri dei nostri paesi, alle pareti foto con scene di caccia al cinghiale, calciobalilla, slot machine Diamond e Ring, a me una “tazza” di birra Ichnusa e a lui un amaro, qualcuno legge il giornale, i più giocano a carte, tressette ovviamente.

Un tavolo con quattro giocatori: Alfonso Murgia di 53 anni (“senza soprannome”), Giovanni Mulas di 68 noto “Migolài”, Pietro Carta di 63, in arte “Periccu”, pastore di pecore e capre nei pascoli di “Concàli Affacciau” e poi Antonello Boi, di 64 anni, albergatore, emigrato di lungo corso, un quarto di secolo tra Germania Olanda e Belgio. Per un attimo poggiano sul tavolino denari e fiori, cuori e picche e parlano del ritrovamento (accertato) di tracce di pittura rupestre nelle grotte del loro paese, digitazioni che potrebbero dare una svolta alla storia della Sardegna e che porterebbero Seulo e i paesi vicini nell’Olimpo del turismo intelligente. Per non parlare poi di quella testa di cavallo – color ocra e contornata di nero – sulla quale sono concentrati gli interessi di ministeri e soprintendenze, università e centri di ricerche, carabinieri e speleologi. Nessuno sa di preciso dove quella “pittura” si trovi e non si sa nemmeno se si tratti di un’opera dell’uomo o di un miracolo firmato da madre natura.

Ma questo è compito della scienza. Comunque sia, per i nostri tressettisti del sabato sera «è importante aver riportato gli studiosi al centro della Sardegna», dice Murgia. «Per noi quei graffiti passavano inosservati», aggiunge Migolài. E Periccu, che aveva fatto da sherpa alla geologa cagliaritana Giusi Gradoli madre della scoperta, ammette: «Che cosa ne può sapere un semplice pastore? Deu non connosciu s’univesitadi ma nimancu su liceu, meno male che altri se ne sono accorti».

Nell’albero di Natale sembra che qui abbiano trovato davvero un tesoro, il tesoro delle pitture in grotta disegnate nella notte dei tempi. C’è qualcuno che sogna Seulo come Altamira in Spagna o come Lescaux in Francia o lo immagina come uno dei mille siti dell’arte rupestre in Australia. Certo: non è stata scoperta «la Cappella Sistina della preistoria» ma l’indicazione va in questo senso. «È una vincita al lotto che va saputa sfruttare», ripetono al bar. «Ma per farlo ci vuole intelligenza».

Seulo sembra rianimarsi. A cavallo tra anno vecchio e anno nuovo si è innescata tra la gente un’aspettativa di crescita, di rinascita basata sulle bellezze del territorio. Che è uno dei più affascinanti della Sardegna di dentro, ai piedi della vetta di Monte Perdedu (1334 metri), sedici chilometri di campagne attraversate dalle anse più belle e più profonde del Flumendosa, boschi di lecci e di ontàni, un vasto patrimonio archeologico, un eden che, però, non produceva (e non produce) ricchezza. Perché Seulo era (ed è) uno dei paesi della Sardegna di dentro con poche prospettive di sviluppo.

Tante grandi case, ma vuote. Tante case, ma non rifinite all’esterno. E così l’aspetto del paese – in linea con quanto avviene in tutta l’Isola – non è dei più ridenti, non ha nulla a che vedere con i villaggi montani del Tirolo, della valle d’Aosta, degli Appennini, con case ordinate, rifinite, piene di fiori. Aggiungete che Seulo, in vent’anni, ha perso più di settecento abitanti, ora ci abitano meno di mille persone, ridotte le attività artigianali se togliamo due eccellenti laboratori di arte tessile (“Su tessingiu” e “Tesca 2000”), un calzolaio e i Mulas coltellinai (Andrea noto Sadilèsu, Priamo, Giuseppe “Gallizzu” e Flavio Carta noto “Basetta”). Modesta anche l’attività pastorale e agroalimentare (si stanno imponendo i vini di Giuliano Moi e i dolci dei pastifici Stefano Secci e Antonello Puddu). Sono attivi (su prenotazione) quattro agriturismo (uno si chiama S’armidda, cioè il timo) e due alberghi (Hotel Miramonti e S’ilixi).

E se il paese diventasse davvero la calamita dell’arte rupestre in Sardegna? C’è molto da fare per strutturare bene l’accoglienza qui a Seulo come in tutti i paesi dell’interno, del Sulcis, dell’Ogliastra, del Campidano.. Perché si tratta di dar vita, ossigeno imprenditoriale a villaggi che si vanno inesorabilmente svuotando e dove l’organizzazione è stata spesso carente.

Ma alcune basi solide dalle quali partire sono state gettate. Seulo – sulla scia di quanto è avvenuto in molte zone del settentrione e degli Appennini – è il primo paese della Sardegna ad aver creato l’Ecomuseo dell’Alto Flumendosa (l’Ecomuseo dell’Alta Langa, in Piemonte, è diretto egregiamente da un architetto sardo, Donatella Murtas, originaria di Dolianova). L’ecomuseo è un’idea moderna e vincente che va sostenuta in tutti i modi dal potere pubblico, ma deve essere il privato a sapersi inserire con iniziative di qualità per poter diventare di successo. L’Ecomuseo è in piedi da quasi due anni per iniziativa dell’ex sindaco Giancarlo Boi (veterinario in una delle Asl di Cagliari) e dell’ex assessore al Bilancio Andrea Murgia, 34 anni, noto “Rondella”, laurea in Economia e ora funzionario presso l’Unione Europea a Bruxelles. Dice Murgia: «Utilizzando l’articolo 37 della legge 4 sui musei, volevamo costruire nel paese qualcosa di nuovo con un’ istituzione che rappresentasse il territorio e non un edificio chiuso.

Una sfida difficile ma possibile. Perché qui le bellezze naturali ci sono, e sono di pregio, si tratta di saperle valorizzare, dando loro il valore aggiunto che meritano e creando le professionalità adeguate.

La recente scoperta di segni dell’arte rupestre, la pubblicità che ne è stata data ripaga già l’investimento fatto nell’ecomuseo perché – al di là delle indagini scientifiche sull’immagine del cavallo – quelle pitture rupestri sono già una certezza e rappresentano oggi la testimonianza più antica della presenza dell’uomo in Sardegna. È evidente che questa particolarità va portata a reddito, si tratta di lavorare molto in questa direzione, di organizzare una nuova economia della produzione e non del consumo, di preparare il paese, di saperlo attrezzare, dandogli un decoro urbano sempre maggiore e creando attività imprenditoriali legate alle risorse locali».

Potrebbe essere un piccolo piano di rinascita per le zone interne. E già oggi l’Ecomuseo è una realtà. Si avvale della collaborazione di una società (la Issa di Cagliari, primo presidente l’ex assessore regionale all’Industria Giuliano Murgia, di Seulo, e oggi presidente del Parco scientifico e tecnologico di Pula). Ed è la Issa a servirsi di sei dipendenti a tempo determinato con l’incarico di fare le guide turistiche tra nuraghi, grotte, domus de janas e le gole del Flumendosa. Organizzano escursioni e nuotate lungo il fiume, pranzi al sacco e sotto i castagni. Qui la carne è gustosa, le trote del Flumendosa squisite, uniche nell’Isola. Le guide sono tutte trentenni e tutte entusiaste, Maria Elena Locci, Maria Carta, Francesca Ghiani, Giampiero Loddo, Giuliano Moi e Duccio Carta. Dice Carta: «Quest’anno abbiamo avuto 1300 visitatori paganti, il prezzo del biglietto è modesto, appena due euro e mezzo, ma ci sono tutte le possibilità di fare meglio. Renderemo sempre più accogliente la sede dove cercheremo di far trovare sempre più prodotti locali. Adesso siamo sicuri che la scoperta di tracce dell’arte rupestre ci sarà di notevole aiuto. È stato il più bel regalo che potessimo ricevere a Natale, dobbiamo attrezzarci per l’anno venturo».

Sono entusiasti i pochi giovani, gli studenti rimasti in paese in questo periodo di feste. Elisa Murgia, 15 anni, seconda liceo scientifico al “Filiberto Farci” di Seui, insieme ad altre tre amiche dice: «Appena torniamo a scuola chiederemo ai docenti di approfondire quanto in questi giorni hanno pubblicato i giornali. Ma è già stupefacente sapere, o anche solo immaginare, che possiamo essere stati il paese che ha dato i natali ai sardi più antichi». Ancora Elisa: «Chiederemo agli insegnanti di farci parlare con la geologa Giusi Gradoli perché ci spieghi bene che cosa hanno scoperto nelle nostre campagne».

Campagne d’incanto anche se ieri erano avvolte dalla nebbia e sotto una pur modesta coltre di neve. È una delle regioni dei tacchi calcarei che portano fino all’Ogliastra. È in questa zona – verso Sadali – la splendida cascata perenne chiamata «Su stampu de su turrunu», chiese campestri che conservano rosoni e portoni tardo gotici. È uno dei paesi inseriti nel Parco geominerario perché, proprio nella zona delle pitture rupestri, c’era la miniera di antracite di “Ingurti pani” che qualcuno vorrebbe poter rimettere in sesto per renderla visitabile ai turisti. Le stesse attese sono nei paesi della zona perché – come ha detto la geologa Giusi Gradoli – tracce di arte rupestre sono state individuate all’interno di grotte lungo il Flumineddu (Esterzili e Perdasdefogu) e nei paesi del Flumendosa (oltre Seulo, Nurri, Orroli, Sadali, Seui e Villanovatulo). Paesi che attendono notizie scientifiche più sicure ma che dovrebbero prepararsi alla rivoluzione culturale prossima ventura: perché forse è stata davvero la zona più interna della Sardegna la prima casa, il primo villaggio dell’uomo sardo. Un sardo pittore, un prenuragico di “rock art”. Tra qualche settimana torneranno a fare i loro sopralluoghi gli esperti greci, spagnoli, australiani in compagnia della geologa sarda che è riuscita a dare una speranza a paesi che sembravano senza futuro. Al bar Boi-Murgia ripetono: «Chissà se le nostre grotte potranno essere la molla per uscire dall’isolamento».

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